Dichiarazione d'intenti
lunedì 1 settembre 2008
Sogno di mezza legislatura - o son desta?
In primis, fra i fumi del dialogo, abbiamo visto aprirsi una porta magica, da cui il nuovo Berlusconi, avvolto in un mantello sinistra-repellente, ha fatto il suo ingresso trionfale in veste di statista, nel compiaciuto stupore del Pd.
E già questa grande trasformazione, che ha del miracoloso, sarebbe bastata a eguagliare maghi del calibro di Houdini, Copperfield e Silvan.
Ma questa legislatura verrà ricordata dai posteri anche per essere riuscita a far convivere il Diavolo e l’Acqua Santa, almeno per un po’.
Infatti, sfidando ogni pregiudizio e affrontando con coraggio i disagi che la mancata approvazione dei Dico causa alle coppie non sposate, è iniziato l’“apparentamento” di Antonio Di Pietro e Walter Veltroni.
Ma già mentre la coppietta Tonino&Walter si godeva la luna di miele, si è capito che l’idillio sarebbe durato poco. I problemi sono cominciati quando la natura da Casanova di Walter si è scontrata con la gelosia di Tonino. Mentre lui faceva il galante con Berlusconi (“In nome del dialogo, e solo finché non verranno approvate le riforme di cui il Paese ha bisogno!”), Tonino lanciava strali contro la sua infedeltà, e augurava la galera e l’invio di Rete4 sul satellite al nemico, rivelando la sua anima giustizialista.
Adesso i due sono separati in casa: chi farà retromarcia per salvare la coppia? Il Paese su questo tema è spaccato – come lo è d’altronde su tutto, da sessant’anni a questa parte – ma dai sondaggi in possesso di Berlusconi sembra che Walter (e con lui il 120% degli elettori del Pd) gradisca di più un matrimonio (regolare con tanto di vestito bianco e consacrazione di Ratzinger) col Caimano, con conseguente confluire del Pd nel Pdl.
In nome della serenità necessaria per approvare riforme condivise, specie in materia di Giustizia e Telecomunicazioni. E al diavolo il caro-vita, l’aumento del prezzo del petrolio e le morti bianche – mera propaganda comunista!
domenica 31 agosto 2008
Problemi si SIAE
Questo clima politico, ma anche culturale e sociale, non aiuta il Paese.
Il mondo sembra capovolto, per quante cose accadono nel silenzio totale, quando in altri tempi avrebbero fatto insorgere l'intera comunità.
Prendiamo, ad esempio, il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, "La casta".
Si colloca sul solco di un tradizione giornalistica che ha i suoi massimi esponenti negli ormai famosi Gomez, Travaglio, Lillo, Abbate, Fierro, Gatti, e che pochi giustizialisti chiamano "d'inchiesta", inneggiando ad esso e alla magistratura, in un rigurgito giacobino.
Ma ancora più sconcertante del loro chiasso, è il silenzio della Lega.
Perchè il partito che un tempo marciava al grido di "Roma ladrona", adesso è proprio lì: nei palazzi del potere.
E ha subìto una trasformazione notevole, rispetto ai suoi albori.
Nel 1993, quando il Parlamento negò l'autorizzazione a procedere per Bettino Craxi (noto ladrone di Stato, poi fuggito ad Hammamet in tempo per evitare la galera), la posizione del Carroccio fu così riassunta da un'Ansa del 29 Ottobre: <
Cos'è successo nel frattempo, da impedire a Bossi&co di cavalcare l'"ondata forcaiola"? In fondo loro avevano anticipato quindici anni fa la cosiddetta "lotta alla casta".
Se volessimo giocare a trovare le "piccole differenze" fra ieri e oggi, non potremmo non notare che ce n'è un paio di macroscopiche: 1)La Lega allora non era alleata di Berlusconi, in quanto il futuro Premier con più processi che capelli in testa, in quei giorni ancora progettava la sua "discesa in campo" (proprio per sfuggire alle inchieste di Mani pulite). 2) Alcuni militanti dei vertici della Lega non avevano interesse ad essere dichiarati immuni dalla Giustizia, poiché non avevano (ancora) procedimenti a loro carico.
Ad esempio Bossi non era stato ancora inquisito per la maxi-tangente Enimont, e Castelli non era stato condannato a risarcire 98.876,96 Euro per aver nominato un altro militante, Giuseppe Magni, a consulente per l'edilizia carceraria (pagato da tutti noi per andare in giro in auto blu senza combinare nulla).
Detto ciò è facile comprendere quale sia il problema della Lega: la SIAE.
Stella e Rizzo si sono macchiati del grave delitto di non averla pagata al Carroccio per l'attribuzione del termine "casta" alla classe politica nostrana, e dunque Bossi ha ben pensato di fargiela pagare tacendo sulla reintroduzione dell'immunità.
Ora che è tutto chiaro potremmo persino ipotizzare che Facci si schieri in favore dell'indipendenza dei giornalisti dal potere politico. Solo per farla pagare a Gasparri, che gli ha usurpato il termine "cloaca" per trasferirlo dalla RAI al CSM.
E' proprio vero che i bei tempi sono finiti!
martedì 17 giugno 2008
Il Divo
La figura complessa di Giulio Andreotti è al centro del film di Paolo Sorrentino premiato a Cannes dalla critica.
Il film, definito "simbolista", è un ritratto del sette volte Presidente del Consiglio, che ha rivestito un ruolo fondamentale nella vita politica italiana a partire dal 1946, e che è tutt'oggi attivo.
La figura di Andreotti è estremamente ambigua: è sia l'uomo condannato ma prescritto per essere stato organico alla associazione mafiosa fino alla primavera 1980, che il capo del Governo che si è avvalso della collaborazione di Giovanni Falcone al Ministero degli Interni e che ha firmato i disegni-legge del Ministro Martelli volti a introdurre misure più efficaci di lotta alla mafia.
Nel film si pone l'accento sul perché il nome di Andreotti ricorra in tutti i misteri della storia italiana.
Non è possibile, purtroppo, dare risposte certe alle domande che aleggiano nel film, e cioè: date per certe le frequetazioni mafiose di Andreotti, quanto queste hanno influito sulla politica italiana, sulla lotta alla mafia, sulla decione della "cupola" di attuare la strategia stragista? E quanto sono state determinanti per il subissamento della mafia, che ha sommerso il suo braccio miltiare per diventare la "mafia dei colletti bianchi"?
martedì 10 giugno 2008
Informazione e politica
Molti si chiedono perché la televisione sia così importante per i politici, e chi crede che non lo sia adduce l'esempio di Silvio Berlusconi: nonostante possegga tre emittenti televisive, nel 1996 e nel 2006 ha perso le elezioni. Ergo le televisioni non determinano spostamenti di voti.
Il problema in Italia è che il sistema televisivo è la maggiore fonte di informazione nazionale. Dati ISTAT rivelano che nel 2000 il 75% della popolazione guardava la tv contro il 58% che leggeva i quotidiani (in maggioranza locali). Dunque, nonostante l'aumento della fruizione di internet, è la televisione a farla da padrona nell'informazione.
Ecco perché è centrale capire se sia libera e pluralista o meno.
Il sistema televisivo in Italia è composto da sette reti, facenti capo a tre "poli": RAI, Mediaset e gruppo La7-Mtv. La RAI è la "televisione di Stato" ed è direttamente controllata dai partiti tramite la prassi della lottizzazione. Il controllo partitico dei tre canali televisivi, ma anche dei tre radiofonici, viene esercitato dalla Commissione Parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, meglio nota come Commissione di vigilanza RAI. La Commissione è stata istituita nel 1975 per togliere i media dello Stato dal controllo governativo e privilegiare il pluralismo, mettendoli in mano all'intero Parlamento. Le varie forze politiche, tuttavia, non hanno garantito l'interesse della collettività e sono ricorsi ad accordi più o meno espliciti per "spartirsi" la RAI.
Ritorniamo alla domanda iniziale: perché è così importante che la televisione sia pluralista ai fini del mantenimento della democrazia?
Ciò che è successo quando Silvio Berlusconi è diventato Presidente del Consiglio - accedendo al controllo della RAI oltre che delle sue tre reti private - ha fatto scandalo non solo in Italia, ma anche all'estero.
La condizione di sudditanza della televisone pubblica al potere politico, quando invece la libera informazione dovrebbe essere uno dei difensori della democrazia contro gli abusi del potere politico, ha avuto non pochi effetti sul diritto dei cittadini ad essere correttamente informati.
Come dice Sartori, infatti, «a mentire ci provano tutti», così come tutti gli uomini di potere in mala fede tentano di chiudere la botola da dove potrebbero uscire notizie sulle loro "macchie" (politiche o personali).
Gli anni del Berlusconi II (2001-2006) hanno visto l'Italia calare nella classifica di Reporters sans frontières sulla libertà di informazione (nel 2004 era al trentanovesimo posto, nel 2005 è scesa al quarantaduesimo, per poi risalire di due posti l'anno successivo).
Il 2002, poi, è stato l'anno delle "epurazioni", del cosiddetto "Editto bulgaro" (in cui Berlusconi, da Sofia dove era in visita ufficiale, dichiarò «L'uso che Biagi [...] Santoro [...] Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga»).
Negli anni in cui l'informazione si è messa al servizio della politica, vi è stato un vero e proprio regime di censura, fatto di notizie scomparse, manipolate, oscurate dalla televisione pubblica assieme a chi si era macchiato della colpa di non essersi assogettato (Biagi, Santoro e Luttazzi, ma anche Corrado e Sabina Guzzanti, Paolo Rossi, Carlo Freccero, Dario Fo e Franca Rame, e molti altri professionisti cacciati in nome di una logica che favorisce chi è sostenuto dai politici e non dalla sola propria bravura).
Quello che è successo durante il secondo governo Berlusconi è stata la radicalizzazione di un problema che si protrae sin dalla nascita della RAI: la mancanza di pluralismo (per maggiori informazioni a riguardo, consiglio Regime, scritto da Marco Travaglio e Peter Gomez).
L'omologazione dell'informazione, sottoposta a un "padrone" il cui interesse principale non era fare della RAI un'azienda di successo (e dunque una concorrente agguerrita di Mediaset), ha fatto sì che la censura non diventasse solo una prassi consolidata, ma che venisse addirittura praticata dagli stessi giornalisti preventivamente.
Oggi la storia sembra ripetersi: Berlusconi è di nuovo al Governo, e non sembra volere risolvere il suo immane conflitto d'interessi.
Il problema, si diceva all'inizio, non si pone solo durante la campagna elettorale. E' inutile, infatti, stabilire che i politici possono avere lo stesso tempo a disposizione nelle varie trasmissioni televisive RAI, quando uno di loro e i suoi alleati hanno a disposizione tre reti tutto l'anno per fare propaganda.
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giovedì 5 giugno 2008
Who is Silvio Berlusconi (P01)
Chi è Silvio Berlusconi? Puntata di Wide Angle in cui si descrivono origine e fortuna del politico italiano (parte 1, le altre sono disponibili su youtube digitando nella barra della ricerca "who is Silvio Berlusconi")
Alitalia
La compagnia di bandiera non versa in buono stato di salute da un bel pò di tempo. Questo è noto alla gran parte degli italiani, e lo era anche prima del tracollo. A sapere come si è potuti arrivare a questo punto, però sono in pochi.
Alitalia è gestita per il 49,90% dal Ministero del Tesoro, per il 2,370% da TT International (una società con sede a Singapore che si occupa di commercio in elettronica) e per il restante 48% circa è flottante (le sue azioni sono cioè in vendita) alla Borsa di Milano.
Nonostante l'indebitamento finanziario netto (quello senza considerare i fondi cassa e i crediti a breve termine) sia sempre aumentato, invertendo la tendenza solo nel 2002 (anno in cui è decresciuto da 998 a 908 milioni di €) la crisi seria è arrivata di recente. La causa è una serie di congiunture: l'attacco alle Torri Gemelle, che per un certo periodo ha determinato un forte calo nei passeggeri; la recessione economica; infine il prosperare della concorrenza (in particolare delle compagnie low-cost).
Certo ci sono delle peculiarità della compagnia italiana che l'hanno portata a una situazione peggiore rispetto alle altre compagnie di bandiera europee. Sicuramente ha contribuito una cattiva gestione, che si è prolungata nel tempo e ha innalzato i costi spropositatamente. Alitalia ha un costo e un numero di impiegati per milione di passeggeri superiore, ad esempio, sia a Lufthansa che a British Airways. E i suoi manager prendono gli stipendi più alti d'Europa. Facciamo un esempio su tutti: Giancarlo Cimoli, Presidente di Alitalia dal 2004 al 2007, ha dichiarato 2 milioni e 700 mila euro. Senza contare la lauta liquidazione ottenuta dopo il disastro compiuto alle Ferrovie dello Stato (intorno ai 6,7 milioni di euro).
Ecco: non solo guadagnano in un anno quanto 210 dipendenti a contratto standard, ma riducono sul lastrico la società ottenendo anche una liquidazione per abbandonare l'incarico.
Ma non è finita qui: ci sono i manager incompetenti, dalla storia controversa. Basti pensare a Cesare Romiti (Amministratore Delegato di Alitalia dal 1969 al 1973, e che fra il 1970 e il 1972 ha ricoperto anche la carica di Direttore Generale) oggi noto perché proprietario dell'Impregilo (la società che ha in appalto la raccolta della spazzatura a Napoli) fino al 2006.
E ci sono anche i conflitti d'interesse. Un esempio: Giuseppe Bonomi, Presidente nel 2003 e nel 2004, è elegantemente passato al comando di Alitalia dopo essere stato Presidente della SEA (società che gestisce Malpensa) dal 1997 al 1999, dov'è tutt'ora in carica dal 2006. Lo scalo è attualmente al centro di una bufera: nato per alimentare il circolo di tangenti fermato da Mani Pulite nel 1992, si trova in un'area già servita da ben otto aeroporti internazionali: Linate a Milano, Caselle a Torino, Orio al Serio a Bergamo, Marco Polo a Venezia, ABD Airport a Bolzano, Marconi a Bologna, D'Annunzio a Brescia e l'Aeroporto di Verona. Resta in vita per il solo volere della Lega.
Detto tutto ciò, come salvare Alitalia? Occorrerebbe una ricapitalizzazione, che faccia disporre la compagia di fondi, e un piano che tagli i costi in eccesso, limiti gli sprechi e la cattiva gestione. Per fare questo il Governo Prodi aveva avviato un tentativo di privatizzazione del 39,9% (cifra che permette di aprire un'OPA, cioè un'Offerta Pubblica di Acquisto), aprendo due gare: la prima, nel 2006, rimasta deserta dopo che tutte e tre le società che si erano fatte avanti si sono ritirate. La seconda risale al Dicembre 2007, e ha visto le proposte di AP Holding (che controlla Air One insieme a Intesa San Paolo) e di Air France-KLM. Il Governo, valutate le offerte non solo con riferimento al prezzo, ma anche alla prospettiva industriale (mantenimento dei posti di lavoro, impegno a non rivendere la compagnia entro un certo periodo di tempo...), ha reso pubblica il 21 Dicembre la scelta di aprire una trattativa con Air France-KLM.
Con il cambio di Governo questa trattativa è saltata (probabilmente per le pressioni della Lega, a causa del progetto di Air France-KLM di applicare un taglio netto ai voli che fanno scalo a Malpensa in favore di Fiumicino). Nell'Aprile 2008, dopo il ritiro dell'offerta di Air France-KLM, è giunta la proposta di stanziare un prestito-ponte di 300milioni ad Alitalia per scongiurare il fallimento, bocciata dall'Unione Europea, che vieta gli aiuti di Stato. E così mercoledì 11 giugno la Commissione Ue, su proposta del suo vicepresidente e responsabile per i Trasporti, Antonio Tajani, aprirà una procedura per aiuti di Stato a carico dell'Italia e chiederà formalmente di sospendere il prestito.
Anche in Italia si era manifestato un forte dubbio sull'opportunità e sull'efficacia dello stanziamento: dati alla mano Alitalia è in perdita di una media di un milione di Euro al giorno (ha infatti perso 15 mila milioni di Euro in quindici anni), e a conti fatti il prestito-ponte non apporterebbe grandi benefici alla compagnia, poiché permetterebbe soltanto l'acquisto del gas per un anno.
Dunque la questione è ancora in stallo, più controversa di quanto i nostri politici credessero, mentre sul collo di Alitalia (e dei suoi dipendenti) grava la spada di Damocle del fallimento, ormai imminente, che aprirebbe la strada a una spartizione della compagnia da parte di un gruppo di imprenditori italiani (fra cui Savatore Ligresti - per saperne di più: http://www.areagratis.it/hostfile/download.php?file=646Ligresti.odt).
I complici
martedì 3 giugno 2008
Vademecum amministrative
Fra due settimane a Messina si terranno le elezioni amministrative. Il 15 e 16 Giugno, infatti, la città sarà chiamata a eleggere il Sindaco e il Presidente della Provincia.
Per chi segue un pò la politica messinese la maggior parte dei personaggi scesi in campo per giocare la partita non è nuova.
Ma andiamo con ordine.
Le urne messinesi non si sarebbero dovute riaprire prima del 2010, ma il ricorso del Nuovo Psi al Tar per l'esclusione della lista di De Michelis dalla competizione elettorale del 2005 ha anticipato i tempi.
Adesso a candidarsi sono volti vecchi e nuovi della scena politica messinese: Giuseppe Buzzanca e Francantonio Genovese (entrambi ex-sindaci), Fabio D'Amore, Saro Visicaro, Ansaldo Patti e Filippo Clementi per le comunali; Paolo Siracusano e Nanni Ricevuto per le provinciali.
La novità, anche rispetto alle ultime elezioni su scala nazionale, sta non tanto nelle facce dei candidati, quanto nelle coalizioni che li presentano.
I concorrenti alla carica di Primo Cittadino, infatti, non fanno riferimento ai soli PD e PdL. Oltre ai veterani Buzzanca e Genovese (rispettivamente candidati da PdL e UdC e da PD, IdV, Verdi e Sd), la disgregazione della coalizione di sinistra ha prodotto altri due candidati (Saro Visicaro della lista "Alternativa in movimento" e Ansaldo Patti sostenuto da Prc e Pdci), ai quali si aggiungono Filippo Clementi di Forza Nuova e Fabio D'Amore di Risorgimento Messinese.
I programmi
Centrale nella campagna elettorale di Francantonio Genovese è la difesa dall'accusa, già preventivata, di aver dato dimostrazione di non essere all'altezza del governo della città. L'ex-sindaco ha infatti posto l'accento sui gravi dissesti finanziari cui ha dovuto fa fronte nel suo passato incarico in soli 21 mesi. Il candidato del PD ha inoltre dichiarato che il programma sarà "incentrato su alcune, precise, priorità (non più di dieci)" in paticolare riguardo "casa, qualità della vita, disegno urbano, grandi eventi, sicurezza". Ad esempio verrà proposto "un ticket sull’attraversamento dello Stretto di Messina che consenta la realizzazione di opere pubbliche senza alcun onere per i cittadini messinesi".
Mentre Fabio D'Amore si scaglia contro l'imposizione nell'agenda politica dell'argomento ponte, a suo dire volta a "distogliere l'attenzione dalle responsabilità di 14 anni di malgoverno" poiché "a fronte della decisone del Governo nazionale di procedere alla grande opera si dovrà inevitabilmente accettare l'iniziativa", mentre sarebbe più profiquo battersi per la realizzazione di tutte le opere ad esso collegate, Giuseppe Buzzanca dichiara che "Non c’è bisogno del referendum, i messinesi hanno già votato scegliendo due governi che hanno il Ponte tra le priorità. E poi ricordiamo che il referendum lo può eventualmente attuare solo la Provincia". Netto, invece, il rifiuto di Ansaldo Patti, che ha definito l'opera "un ecomostro", pergiunta inutile.
Voce fuori dal coro, Saro Visicaro continua a portare avanti le lotte di sempre: trasparenza, partecipazione attiva della cittadinanza nelle decisioni, avvio della raccolta differenziata. Riguardo al ponte la sua posizione è chiara: "l'attuale progetto del ponte a campata unica è insostenibile e inconciliabile economicamente. L’opposizione a questo progetto quindi è più che necessaria. L’amministrazione dovrà piuttosto condurre una capillare campagna d’informazione sulla inconsistenza dell’attuale ipotesi progettuale e su nuove possibili eventuali soluzioni innovative".
lunedì 2 giugno 2008
Capitalismo: si o no?
Se n'è parlato nei salotti televisivi, nelle trasmissioni di attualità politica, e se n'è parlato - come molti accusano - in politichese.
Pochi infatti sono coscienti di cosa significhino welfare state e capitalismo, libera concorrenza e conflitto d'interessi.
Molti, invece, ne sanno quanto è stato loro comunicato (in pillole e faziosamente) dai politici.
In questo post cerco di dirimere la questione nel più distaccato dei modi, fornendo, a chi ne avrà la voglia, gli strumenti nozionistici necessari per farsi un'idea di cosa sia meglio, e cosa peggio.
Premetto tutto ciò per giustificare il mio tono "scolastico", l'ampio uso di dizionari ed enciclopedie, che tuttavia ritengo indispensabili per dare un'informazione adeguata e non faziosa, anche se queste precauzioni potranno rendere il testo pesante. Me ne scuso in anticipo.
CAPITALISMO: SI O NO?
Partirei da una definizione semplice semplice, accessibile a tutti e immagino altrettanto condivisa: quella che il dizionario fornisce di capitalismo: sistema economico e sociale fondato sul predominio del grande capitale privato e quindi sulla separazione del lavoro dalla proprietà dei mezzi di produzione e dalle decisioni relative alla produzione stessa.
Va anzitutto distinta la nozione di capitalismo come fenomeno (cioè, come sistema politico-economico e sociale) dalla nozione di capitalismo come ideologia (la posizione che difende la "naturalità" o la "superiorità" di tale sistema, basato sulle competizioni di detentori di capitali privati).
Per quanto riguarda l'aspetto meramente economico, il capitalismo può essere definito una forma "pura" di economia di mercato con interventi statali ridotti al minimo (laissez-faire), diettamente derivata dal progresso tecnologico e dall'innovazione delle forme produttive, che ha come obiettivo primario quello di far fruttare (valorizzare) il denaro possieduto, attraverso la libertà d'iniziativa economica e un processo di accumulazione del capitale.
La nascita del capitalismo può essere collocata temporalmente in coincidenza del passaggio da una società feudale a una società di stampo borghese; tale transizione rappresentò l'abbandono di un'economia naturale (prettamente agricola, mirante alla diretta soddisfazione dei bisogni primari, e basata sull'istituto della servitù della gleba) verso una economia mercantile e artigianale, approdata nel XVII secolo a una prima forma di industrializzazione.
Quest'ultima fase è stata ben descritta da Marx: l'accumulazione del capitale, infatti, avveniva secondo un processo determinato, che prevedeva l'acquisto per mezzo del salario di una quantità di lavoro superiore a quella realmente pagata, e quindi la formazione della ricchezza che il capitalista avrebbe potuto reinvestire nel processo produttivo attraverso l'acquisto di altri beni capitali.
Alla fine del XIX secolo questo modello è stato messo in crisi dalla separazione fra proprietà e management, avvenuta con il sostituirsi delle società per azioni alla proprietà familiare. In questo modo si è favorita da un lato la crescita delle imprese, dall'altro l'accentramento dei capitali nelle mani di pochi grandi capitalisti.
Infine, a partie dagli ultimi due decenni del XX secolo, il totale distacco del capitale finanziario dalla produzione industriale (con la nascita dei mercati finanziari e della speculazione monetaria) ha portato a un ulteriore accentramento dei capitali.
Chi sostiene il capitalismo come sistema economico superiore, fa affidamento sul meccanismo redistributivo della borsa per superare il gap fra livelli eccessivi di accumulazione e scarsità dei redditi distribuiti a coloro che partecipano, con il loro lavoro, al processo produttivo e che sostengono il livello dei consumi.
L'idea di fondo è che l'intervento statale, volto a riequilibrare l'accesso al capitale per mezzo dell'intervento pubblico nell'economia di mercato e di una forte regolamentazione del mercato stesso, sia inutile ed oppressiva nei confronti della libertà d'iniziativa.
Il tentativo di applicare un sistema di welfare state è fallito a causa del malcontento generato dalla perdita di controllo della qualità e quantità della spesa pubblica, dall'eccesso di tassazione, da una crescente inefficienza delle produzioni e dei servizi erogati da enti pubblici e dalla diffusione di comportamenti devianti e corrotti nella pubblica amministrazione.
Per questo si è diffusa l'idea che il mercato abbia la capacità di autoregolarsi e che nella divisione del lavoro e nell'apertura totale dei mercati vi siano capacità quasi illimitate di produzione della ricchezza.
Oggi questioni come ad esempio quella ecologica, o quella demografica, complicano lo scenario in cui l'economia agisce, e mettono al centro della produzione e della redistribuzione il rispetto, oltreché dei principi del profitto e del mercato, dell'ambiente e dei diritti universali.
Nonostante ciò la tendenza predominante in Europa e negli Stati Uniti, nonchè nei Paesi in via di sviluppo, resta quella che vorrebbe un'economia capitalista allo stato puro.
Educare la cittadinanza
Il convegno "Educare la cittadinanza" si è tenuto alle ore 17,30, presso la Sala Partecipazione di Palazzo Cesaroni (la Regione).
Sebbene il numero totale dei partecipanti possa far pensare a un disinteresse nei confronti del tema, il dato confortante è che ben il 30% dei presenti era composto da giovani.
A condurre la serata Umberto Santino, del Centro Peppino Impastato, autore di molti volumi sulla mafia, in cui ne analizza con grande competenza le varie componenti.
Nella sua biografia Santini può certo vantarsi delle conoscenza diretta di Falcone e Impastato e della fondazione del Centro intitolato in seguito al giovane di Cinisi ucciso per mano mafiosa.
Sono molti i luoghi comuni che si sono diffusi nel tempo riguardo sia al fenomeno mafioso, che all'antimafia. Combatterli non è facile, specie se la "questione criminalità organizzata" non è al centro di una campagna d'informazione adeguata.
Alcuni di questi stereotipi, privi di ogni fondamento scientifico, sono stati dibattuti durante la serata.
Ad esempio è assolutamente infondato ritenere che la mafia esista solo quando spara; anzi, in quei momenti è in difficoltà, e quando non ricorre alla violenza eclatante significa che riesce a condurre i propri affari senza problemi. Per la mafia uccidere è l'ultima ratio, perché può sì servire da avvertimento per gli eventuali ribelli, ma è altrettanto vero che attira l'attenzione dei media e scatena una forte reazione delle forze dell'ordine.
E' inoltre infondata l'idea che l'antimafia sia nata negli ultimi decenni. Infatti essa è congenita alla nascita della mafia stessa. Sin dall'Ottocento i movimenti di contadini, estremamente seguiti in Sicilia, hanno combattuto i gabelloti mafiosi assoldati dai latifondisti per mantenere con la violenza l'ordine nelle campagne. L'antimafia non si è mai fermata, ed è stata collegate alle lotte contadine fino al secondo dopoguerra; in seguito, negli Anni '60-'70 è stata una lotta di minoranze, finché negli Anni '80 le prime associazioni se ne sono prese carico.
La mafia non è, come si crede, un fattore culturale, nè tantomeno quella de Il Padrino. La mafia è un fenomeno complesso, che non và sottovalutato nè sopravvalutato.
Occorre informarsi, abbandonare ogni pregiudizio e non dimenticare che ciascuno di noi può fare qualcosa contro la mafia.